Il fascino della natura
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Gli esperti parlano di “soft fascination”: è la creatività che nasce quando siamo immersi nella natura. Favorire un mondo più naturale rappresenta un vantaggio non solo per la biodiversità e il benessere delle persone ma anche per le nostre capacità artistiche, spirituali, di “stupore”
di Danilo Selvaggi
Apro gli occhi un attimo prima che la sveglia suoni. Sono le quattro e mezza del mattino. Sulla terrazza della casetta di campagna, presa in affitto per una breve vacanza, l’aria è fresca nonostante siamo in piena estate. Buio, silenzio. Gli uccelli della notte hanno smesso di farsi sentire, quelli dell’alba non hanno ancora cominciato. Sospensione. Toccherà alla mistica allodola cantare per prima, dando vita al giorno.
Poco dopo sono in spiaggia. È deserta e sa del profumo dei narcisi di mare che imbiancano la duna. Una grande luna celeste campeggia alle mie spalle. Il sole non è ancora sorto. Lo farà tra pochi minuti, lasciandomi ancora una volta stupito. Anche qui silenzio, a parte la risacca del mare. Mi siedo, con il mio taccuino, e comincio a scrivere.
Scrivo, scrivo, in un getto inarrestabile. È una sorta di flusso di coscienza, spontaneo ma anche lucido, come se qualcosa di chimico accelerasse la mia mente. Un enhancement, un potenziamento, come dicono gli esperti di tecnologia. Però, un potenziamento naturale, senza bisogno di farmaci. Il farmaco è la natura. Scrivo appunti di lavoro, programmi, cose da fare, sommari di articoli, versi poetici, materiale che solitamente comporrei in giorni interi, forse in settimane. Qui mi bastano poche decine di minuti. E quando rileggo, tutto è perfettamente logico.
Cosa ha aperto la mia mente? Cosa la apre ogni volta che mi trovo a scrivere all’aperto, ogni volta che respiro natura? Esattamente questo: la natura. Il potere della natura di avvolgermi, di liberare energie creative. Il suo potere di incantarmi. Il suo soft fascination.
Restaurare anime
Nel 1989, gli psicologi Rachel e Stephen Kaplan, dell’Università del Michigan, elaborano una teoria su come recuperare dalle situazioni di stress mentale che sempre più colpiscono le persone - specie quelle urbanizzate - e su come farlo proprio grazie alla natura. La “terapia”, definita Art (Teoria del Restauro/Ripristino dell’Attenzione), prevede un percorso di quattro livelli di liberazione dallo stress, centrati su un modo diverso di gestire l’attenzione, di cui il terzo livello è chiamato proprio del soft fascination. La tesi di fondo è che, nella vita, non possiamo sempre e solo essere svegli e concentrati, tenendo alta e forte l’attenzione (fino a stressarla). Non è sano. Al contrario, dobbiamo lasciare la nostra mente anche libera di andare, vagabondare, distrarsi, ricevere stimoli morbidi, e di approfondire le cose piuttosto che accumularle, scivolando incessantemente da un dato all’altro, da un sito a un altro. In questo, la natura è maestra. Sa accoglierci, accarezzarci, rallentarci, favorire relazioni delicate che sono una vera e propria cura. La natura è un restauro dell’anima e della mente sollecitate dai troppi problemi, informazioni, richieste, obiettivi, rumore, caos del mondo di oggi.
Pillole di natura
Tra la moltitudine di studi in campo di terapia della natura, è ancora l’Università del Michigan che merita di essere segnalata, a proposito di uno studio (di Mary Carol Hunter e altre) del 2019 su quanto una vita più naturale riduca lo stress quotidiano di chi abita in città. Il lavoro, condotto mediante il prelievo di due bioindicatori dello stress nella saliva (cortisolo salivare e alfa-amilasi), ha coinvolto 36 persone alle quali è stato chiesto di avere una Ne (Nature experience, Esperienza di natura), trascorrendo almeno dieci minuti al giorno in ambiente naturale per almeno tre volte a settimana per otto settimane. Ebbene, è bastato così poco per registrare un calo dello stress nelle persone di circa il 25%. Lo studio è così diventato un invito agli operatori sanitari che si trovano ad affrontare i sempre più frequenti casi di stress mentale: spingete le persone a stare in natura. Prescrivete loro una pillola di natura quotidiana. Anche solo pochi minuti trascorsi tra alberi, foglie, erba, canto degli uccelli. La vita delle persone, accarezzata dal soft fascination della natura, ne trarrà un sicuro giovamento.
Le due foreste
E tuttavia, non è solo una questione terapeutica. Con il tempo, il concetto di soft fascination sta andando oltre la pur preziosissima funzione di cura naturale, per arricchirsi di un altro significato: la natura come luogo di ispirazione profonda, quasi di estasi. Qualcosa di più simile a ciò che gli antropologi chiamano affascinamento: l’essere ammaliati, rapiti dall’ambiente naturale, che diventa così una potentissima spinta alla creatività. Il pensiero razionale si fa da parte ed entra in gioco quello artistico, proveniente dagli strati più intimi e persino più oscuri (cioè meno razionali e controllati) del nostro animo. È come se avessimo una foresta interiore e quando ci troviamo in natura, ad esempio in un bosco, in una foresta vera e propria, le due foreste cominciano a dialogare direttamente, senza bisogno della nostra mediazione razionale. Parlano tra loro, e la foresta vera fa sì che la nostra foresta interiore produca pensieri laterali, esprima sentimenti più intensi. Chi ha sperimentato questa situazione sa bene di cosa si parla: è come se davvero, dentro di noi, si aprisse un terzo occhio. Le normali catene di controllo/comando si allentano e la nostra anima scorre più fluida, più libera. Guarda più lontano.
Pietre incrociate
Buona parte dell’opera del norvegese Arne Naess, fondatore dell’ecologia profonda e tra i più importanti pensatori ecologisti della storia, la si deve proprio a una situazione del genere, cioè al rapimento creativo prodotto su di lui da un luogo naturale, chiamato Tverganstein (le “pietre incrociate”). Da piccolo, Naess trascorreva le vacanze estive in un villaggio a pochi chilometri dalle maestose montagne di Tverganstein, che già da subito lo avevano ammaliato. È lì - pensava Naess - che voglio essere. E così, nel 1937, a 25 anni, Naess costruisce a Tverganstein, a 1500 metri di altezza, la baita dove vivrà per molto tempo, in condizioni insostenibili per qualunque persona normale. Niente riscaldamento, temperature sotto zero, rifornimenti complicati ma al tempo stesso la magia di una natura che lo avvolge e lo fa diventare, con lei, quasi tutt’uno. Nel soft fascination di questo luogo, Naess produrrà le basi della sua filosofia ecologista, che chiamerà Ecologia profonda o Ecosofia T, dove la T sta proprio per Tverganstein, a indicare l’importanza che quel luogo naturale ha avuto per la scrittura. «Quel che è eccezionale di Tvergantsein e di posti simili è la loro capacità di offrire i fondamenti di una vita semplice di mezzi ma ricca di fini. È come essere catturati dal luogo». Qui, nella baita delle pietre incrociate, scrive Naess, «è dove appartengo. Tverganstein è un luogo estremo sotto molti aspetti ma è difficile non essere felice e grato di averlo trovato».
Foto Davide Biagi
La somma di tutte le cose
Di casi di affascinamento naturale come quello di Arne Naess la letteratura ecologista è piena. La capanna sul lago Walden ispirò l’intera filosofia ambientale e sociale di Henry D. Thoreau. Il vagabondare per i sentieri e le campagne d’America incantò Walt Whitman, permettendogli di scrivere quel Foglie d’erba che, pur elaborato e rivisto nel corso di molti anni, è un immenso flusso di coscienza. Un libro tanto lucido quanto febbrile, come se Whitman avesse smesso di essere semplicemente umano per incarnarsi nelle anatre, nelle poiane, nei fiori azzurri che popolano le mille pagine dell’opera. «Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere nell’erba che amo. Se ancora mi vuoi, cercami sotto i tuoi piedi».
Per non parlare dell’arte della cosiddetta controcultura, nata soprattutto dall’abbandono della civilizzazione e dal contatto diretto con la natura, fino ai giorni nostri, con il binomio natura-creatività diventato centrale in molta produzione artistica. Un esempio su tutti: il giovane cantautore americano Justin Vernon (nome d’arte Bon Iver) il quale, ferito da una delusione sentimentale e da una carriera che non decolla, si ritira in solitudine in una baita, tra la neve dei boschi del Wisconsin, e di getto, in pieno soft fascination, scrive un intero disco che gli darà la fama mondiale. Il disco è intitolato For Emma, for ever ago (Per Emma, per sempre) ed è quasi inevitabile pensare che Emma, più che una donna, sia la somma di tutte le cose. La somma dei sapori, dei silenzi, degli odori, dei rami, degli alberi, dei funghi, dell’acqua che scorre, dei voli del falco, dei soffi del vento, delle luci nel canneto, delle ombre nel bosco, dei sentimenti passati e futuri, dei piccoli insetti nel fango. Una totalità che chiamiamo natura della quale, a un certo punto della storia, ci siamo follemente innamorati.
Circolo grigio
Bisogna evitare l’errore di demonizzare sempre e comunque la vita urbana. La nostra cultura è anche evoluzione, cambiamento, artificio, tecnologia, e nel corso del tempo le società umane hanno modificato il proprio stile di vita, costruendo città, razionalizzando l’esistenza, aumentando gli strumenti a propria disposizione. Tutto questo ha portato grandi benefici (dalla medicina all’istruzione, dall’organizzazione sociale alla comunicazione) ma al tempo stesso ha spinto il sistema troppo in là. Risultato: esistenze dai ritmi vertiginosi, produzione senza sosta, distacco dalla natura, disumanizzazione. I dati sulla progressiva urbanizzazione del mondo non lasciano prevedere un vero cambio di rotta. Secondo le Nazioni unite (Global environment outlook) nel 2050 saranno 6,7 miliardi (il 66% della popolazione totale) le persone che vivranno in ambiente urbano, in molti casi in megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti. Senza correttivi considerevoli, il consumo di suolo aumenterà, altra natura verrà cancellata e noi stessi ne pagheremo le conseguenze.
Lontani dalla natura, il nostro pensiero è grigio e ansiogeno, e il pensiero grigio e ansiogeno ci fa allontanare ulteriormente dalla natura, e tutto diventa ancora più grigio e ansiogeno. Come spezzare questo circolo vizioso? Non semplicemente cercando rifugio nella nostra personale capanna, per quanto affascinante sia, ma esigendo un cambiamento nelle politiche generali: lo stop alla distruzione della natura, la rigenerazione degli habitat, città ecologiche e accoglienti, infrastrutture verdi che man mano sostituiscono le infrastrutture grigie. Un mondo più ricco di biodiversità e con ritmi diversi, in cui la nostra stessa ricchezza interiore possa essere favorita, liberata, non più ingabbiata.
Dentro e fuori
È anche pensando a questo che la Commissione europea ha chiamato Riportare la natura nelle nostre vite la nuova strategia 2020-30 per la biodiversità (un titolo che ha ispirato la Lipu per il suo nuovo programma di azione 2021-25: La natura nelle nostre vite). Il doppio concetto espresso dalla Commissione, e ripreso dal Parlamento europeo nella bellissima relazione a sostegno della Strategia, è che la natura è penalizzata sia intorno a noi, materialmente, negli habitat naturali, nel mare, nelle specie in declino, sia dentro di noi, spiritualmente. Dunque, il lavoro da fare è doppio: ecologico ed antropologico, scientifico e culturale.
In tal senso, è indicativo che un’importante disciplina come la psicologia si stia sempre più aprendo al pensiero ecologico, sulla base dell’idea che, appunto, l’ecologia esteriore e quella interiore sono in relazione strettissima. Lo spiega bene Marcella Danon, dell’Università della Valle d’Aosta, nel suo Ecopsicologia, nel quale ripercorre brevemente la storia della disciplina ed evidenzia le novità conseguenti all’entrata in gioco dell’ecologismo, nonché di accademici e psicologi come Robert Greenway e Theodore Roszack.
La psicologia, sostiene Danon, si è sempre concentrata sull’interno degli esseri umani, trascurando il loro essere parte della natura, Dal canto suo, l’ecologismo ha commesso l’errore opposto, guardando soprattutto fuori, senza mai prendere sul serio il profondo dell’essere umano. Oggi, dice Danon, dobbiamo mettere in dialogo diretto questi due mondi, i paesaggi interiori della psiche umana e i paesaggi esteriori dell’ambiente e della natura, sapendo che per sanare le ferite degli uni bisogna sanare quelle degli altri.
Quando faremo questo, quando stabiliremo con la natura un rapporto più diretto, non ci sentiremo semplicemente meglio ma ci sentiremo diversi. Più vivi, più creativi. Più disposti a lasciar essere le vaste possibilità di cui il nostro animo è capace. In un certo senso, apriremo una nuova stagione, probabilmente migliore, della lunga storia umana.
Il principio dello stupore
La natura, dice Gary Snyder, è casa nostra. Vero. Tuttavia, la natura è anche un luogo che non conosciamo. È una fuga, una sorpresa. Una storia poetica. Non va dimenticato che alle origini del movimento ambientalista c’è la scienza, che ci permette di analizzare e capire, ma c’è anche la filosofia romantica, che ha un atteggiamento esattamente opposto. Guarda il mondo con gli occhi di un bambino che non sa, non conosce, si meraviglia per quanto vede e ama questa meraviglia. Ha uno sguardo attonito e un atteggiamento disarmato. Desidera provare l’ebbrezza di essere piccolo, estraneo. È felice di sapere che gli altri esistono e che gli altri non siamo noi. È felice di sapere che la natura non è solo casa nostra ma casa di moltissimi. Vuole perdersi nella vertigine della natura, nell’incanto della natura. Nel flusso del soft fascination. Non soltanto informazione ma racconto. Non soltanto conoscenza ma stupore. In un mondo dominato dall’utile, dal controllo, dal consumo ininterrotto, dal “cosa ci guadagno”, questo è un principio ecologico fondamentale, forse il più importante.
Bibliografia
Arne Naess, Siamo l’aria che respiriamo, Piano B 2021
Henry D. Thoreau, Walden, vita nel bosco, Feltrinelli 2014
Walt Whitman, Foglie d’erba. I Meridiani Mondadori 2017
Marcella Danon, Ecopsicologia, Aboca 2020
Giuseppe Barberio, Ecologia affettiva, Mondadori 2017
Leonardo Caffo, Quattro capanne, Nottetempo 2020